Sunday 17 August 2014

Marikana, Gaza, Ferguson

di Richard Pithouse, Crisi Globale

Il mese di agosto di quest’anno è stato segnato dalla violenza omicida a Gaza e a Ferguson. In questo articolo uno studioso sudafricano mette in collegamento gli eventi in Palestina e negli USA con un altro agosto, quello del 2012 e della strage di Marikana, ma anche con il passato della violenza coloniale in Algeria e ad Haiti.

Nelle guerre coloniali la potenza occupante giunge immancabilmente a un punto in cui deve prendere atto del fatto che il suo vero nemico non è una minoranza (adepti del diavolo, comunisti, fanatici o terroristi) soggetta a una manipolazione esterna e maligna, bensì il popolo nel suo complesso. Una volta raggiunto questo punto, ogni persona colonizzata viene considerata come un potenziale combattente, e interi quartieri insieme alle loro case vengono definiti obiettivi legittimi di azioni di guerra.
E’ in questo momento che il paternalismo liberale viene meno.


Fin da quando ha mosso i primi passi il liberalismo ha spesso gestito la contraddizione tra questa realtà e la propria affermazione della libertà, limitando la portata di quest’ultima in termini sia spaziali che razziali. Le regole che venivano considerate applicabili in Inghilterra o in Francia non venivano applicate alle piantagioni schiavistiche dell’America o dei Caraibi o, in tempi più recenti, durante le guerre coloniali in Kenya o in Algeria. Lo stesso vale per Gaza oggi.


Ma come ha sostenuto Aimé Césaire nel 1955, in un saggio pubblicato per la prima volta a Parigi, il colonialismo ha un “effetto boomerang” – quello che viene fatto nei luoghi lontani in cui esso opera alla fine verrà fatto a casa, di norma a un gruppo di persone che è stato estromesso dalla categoria dei cittadini autentici con un pieno diritto alla presenza. Il 17 ottobre 1961, mentre la guerra algerina contro il colonialismo francese stava giungendo alla sua fine, migliaia di algerini, tra trentamila e quarantamila uomini, donne e bambini che indossavano i loro migliori vestiti, hanno marciato a Parigi per protestare contro il coprifuoco imposto agli algerini. Prima della marcia Maurice Papon, il capo della polizia che era stato un collaboratore dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale, aveva comunicato ai suoi funzionari che “anche se gli algerini non sono armati, dovete sempre guardare a loro come se fossero armati”.
I manifestanti sono stati affrontati con un selvaggio attacco della polizia. Sono state gettate persone nella Senna, alcune morte, altre sanguinanti ma ancora vive. Altre persone sono state portate nelle sedi della polizia e picchiate a morte nei loro cortili. Altre ancora sono state rinchiuse in stadi e lasciate morire senza assistenza medica. Per anni in Francia si è completamente taciuto su questi eventi. Uno dei risultati di questo silenzio è stato che il numero esatto delle persone uccise dalla polizia rimane ancora oggi non chiarito. Le stime più credibili arrivano fino a 200 vittime.

Le potenze coloniali hanno sempre condiviso tra di loro quanto hanno appreso dall’oppressione che esercitano. Alcune delle persone che torturavano durante l’apartheid hanno appreso le loro tecniche dai francesi che avevano fatto della tortura una routine nel tentativo di contenere la resistenza al colonialismo in Algeria. Ma anche le vittime del colonialismo hanno sempre condiviso le loro conoscenze riguardo a come resistere all’oppressione. Nel 1962 Nelson Mandela si è recato nell’Algeria da poco indipendente per ricevere un addestramento militare.

A partire dal diciottesimo secolo sono stati i marinai, forse più di chiunque altro, a diffondere la rivolta di porto in porto. Nel 1804 gli schiavi africani hanno conquistato la libertà ad Haiti. Anni dopo schiavi strappati dalle loro terre in tutto il mondo e deportati insieme a Cape Town, hanno sollevato la bandiera della rivolta nella città africana. I dock di Cape Town sono rimasti un luogo di scambio sovversivo almeno fino all’inizio del ventesimo secolo, quando i marinai hanno messo le idee anarchiche, comuniste e garveyste in dialogo con esperienze e idee di carattere maggiormente locale, portando alla nascita dell’Unione dei lavoratori del commercio e dell’industria che, diffondendosi da Cape Town attraverso il Capo Orientale. fino a Durban, e poi fino a quelli che oggi sono gli stati indipendenti della Namibia, dello Zimbabwe e dello Zambia, è diventata in vari momenti della storia un sindacato, un movimento di contadini e un movimento degli abitanti delle baraccopoli.

Oggi le zone in cui le relazioni di potere coloniali che ancora persistono assumono le loro forme più estreme, come la Palestina e Haiti, non sono solo luoghi di un’oppressione che passa ogni segno. Sono anche laboratori in cui vengono messe alla prova nuove modalità di oppressione. I soldati brasiliani che hanno partecipato all’occupazione di Haiti da parte dell’Onu e hanno preso parte alle azioni per soffocare il movimento per la democrazia e la giustizia nelle baraccopoli di Port-au-Prince sono tornati a casa per occupare le favelas di Rio. Lo stato di Israele vende le tecnologie che ha testato in Palestina, e lo stesso stato, con i consulenti a esso collegati, addestra funzionari di polizia, soldati e società di sicurezza private di altri paesi. Le lezioni apprese a Gaza verranno condivise con apparati di sicurezza da Johannesburg a Parigi e a New York, modernizzando vecchie forme di dominazione.

Quando il dipartimento di polizia in schiacciante maggioranza composto da bianchi di Ferguson, nel Missouri, alcuni uomini del quale sono stati addestrati in Israele, ha reagito alle proteste contro l’uccisione da parte di suoi agenti di Michael Brown, un adolescente nero non armato, lo ha fatto utilizzando armi utilizzate per la prima volta durante la guerra in Iraq. Le immagini che hanno fatto il giro del mondo mostravano una modalità di repressione poliziesca che può essere compresa solo come radicata nelle forme contemporanee di potere imperiale e coloniale nel Medio Oriente, nonché nella lunga storia della violenza statale contro i neri negli Stati Uniti. Non sorprende che da Gaza abbiano cominciato a inviare vi twitter ai manifestati di Ferguson consigli su come difendersi dalle granate stordenti, i gas lacrimogeni e tutto il resto. E da Gaza sono stati anche inviati a Ferguson anche messaggi di sostegno.

Nel nostro paese ormai non si può più nascondere che la polizia, equipaggiata in parte da Israele, affronta una parte dei nostri concittadini come se fossero nemici nell’ambito di una guerra coloniale. Nessuno che abbia visto le riprese del massacro di Marikana, o di uno sgombro alla Marikana Land Occupation a Durban, ne può dubitare. E come a Gaza, o a Ferguson, l’evidente carattere coloniale di alcune forme del potere statale contemporaneo non consiste solo in una subordinazione delle questioni sociali a una logica militare. Mentre gli stessi cannoni ad acqua vengono utilizzati a Gaza, Port-au-Prince e Ferguson, o contro le baraccopoli in Brasile e in Sudafrica, in tutto il mondo vengono replicate le medesime operazioni ideologiche, anche se con una fraseologia diversa. La persona che viene sempre trattata come se fosse armata, la cui vita non conta nulla, la cui casa non è inviolabile, è un terrorista a Gaza, un gangster o un criminale a Port-au-Prince, a Ferguson, a Rio o a Durban. Gli abitanti di Gaza vengono identificati con Hamas, a Port-au-Prince con Aristide e Lavals. Qui da noi in Sudafrica è la cosiddetta “terza forza”.


L’impunità dello stato israeliano, così come di quello americano e come l’impunità con la quale il nostro stato ricorre sempre più alle uccisioni e legittima l’uccisione come strumento di controllo sociale, deve essere spezzata. La militarizzazione delle questioni sociali deve essere spezzata ovunque. Se ciò non avverrà, quanto è stato fatto ad Haiti tornerà come un boomerang in Brasile. Continuerà a diventare parte dei meccanismi standard di repressione dei poveri delle aree urbane da Bombay fino a Johannesburg. Quanto viene fatto in Palestina tornerà come un boomerang nelle banlieue di Parigi, nei ghetti degli Stati Uniti e nei luoghi del nostro paese in cui i lavoratori in sciopero si raccolgono o gli sfrattati occupano terreni.