di Richard Pithouse, Crisi Globale
Il mese di
agosto di quest’anno è stato segnato dalla violenza omicida a Gaza e a
Ferguson. In questo articolo uno studioso sudafricano mette in collegamento gli
eventi in Palestina e negli USA con un altro agosto, quello del 2012 e della
strage di Marikana, ma anche con il passato della violenza coloniale in Algeria
e ad Haiti.
Nelle guerre
coloniali la potenza occupante giunge immancabilmente a un punto in cui deve
prendere atto del fatto che il suo vero nemico non è una minoranza (adepti del
diavolo, comunisti, fanatici o terroristi) soggetta a una manipolazione esterna
e maligna, bensì il popolo nel suo complesso. Una volta raggiunto questo punto,
ogni persona colonizzata viene considerata come un potenziale combattente, e
interi quartieri insieme alle loro case vengono definiti obiettivi legittimi di
azioni di guerra.
E’ in questo
momento che il paternalismo liberale viene meno.
Fin da
quando ha mosso i primi passi il liberalismo ha spesso gestito la
contraddizione tra questa realtà e la propria affermazione della libertà,
limitando la portata di quest’ultima in termini sia spaziali che razziali. Le
regole che venivano considerate applicabili in Inghilterra o in Francia non
venivano applicate alle piantagioni schiavistiche dell’America o dei Caraibi o,
in tempi più recenti, durante le guerre coloniali in Kenya o in Algeria. Lo
stesso vale per Gaza oggi.
Ma come ha
sostenuto Aimé Césaire nel 1955, in un saggio pubblicato per la prima volta a
Parigi, il colonialismo ha un “effetto boomerang” – quello che viene fatto nei
luoghi lontani in cui esso opera alla fine verrà fatto a casa, di norma a un
gruppo di persone che è stato estromesso dalla categoria dei cittadini
autentici con un pieno diritto alla presenza. Il 17 ottobre 1961, mentre la
guerra algerina contro il colonialismo francese stava giungendo alla sua fine,
migliaia di algerini, tra trentamila e quarantamila uomini, donne e bambini che
indossavano i loro migliori vestiti, hanno marciato a Parigi per protestare
contro il coprifuoco imposto agli algerini. Prima della marcia Maurice Papon,
il capo della polizia che era stato un collaboratore dei nazisti durante la
Seconda guerra mondiale, aveva comunicato ai suoi funzionari che “anche se gli
algerini non sono armati, dovete sempre guardare a loro come se fossero
armati”.
I
manifestanti sono stati affrontati con un selvaggio attacco della polizia. Sono
state gettate persone nella Senna, alcune morte, altre sanguinanti ma ancora
vive. Altre persone sono state portate nelle sedi della polizia e picchiate a
morte nei loro cortili. Altre ancora sono state rinchiuse in stadi e lasciate
morire senza assistenza medica. Per anni in Francia si è completamente taciuto
su questi eventi. Uno dei risultati di questo silenzio è stato che il numero
esatto delle persone uccise dalla polizia rimane ancora oggi non chiarito. Le
stime più credibili arrivano fino a 200 vittime.
Le potenze
coloniali hanno sempre condiviso tra di loro quanto hanno appreso
dall’oppressione che esercitano. Alcune delle persone che torturavano durante
l’apartheid hanno appreso le loro tecniche dai francesi che avevano fatto della
tortura una routine nel tentativo di contenere la resistenza al colonialismo in
Algeria. Ma anche le vittime del colonialismo hanno sempre condiviso le loro
conoscenze riguardo a come resistere all’oppressione. Nel 1962 Nelson Mandela
si è recato nell’Algeria da poco indipendente per ricevere un addestramento
militare.
A partire
dal diciottesimo secolo sono stati i marinai, forse più di chiunque altro, a
diffondere la rivolta di porto in porto. Nel 1804 gli schiavi africani hanno
conquistato la libertà ad Haiti. Anni dopo schiavi strappati dalle loro terre
in tutto il mondo e deportati insieme a Cape Town, hanno sollevato la bandiera
della rivolta nella città africana. I dock di Cape Town sono rimasti un luogo
di scambio sovversivo almeno fino all’inizio del ventesimo secolo, quando i
marinai hanno messo le idee anarchiche, comuniste e garveyste in dialogo con
esperienze e idee di carattere maggiormente locale, portando alla nascita
dell’Unione dei lavoratori del commercio e dell’industria che, diffondendosi da
Cape Town attraverso il Capo Orientale. fino a Durban, e poi fino a quelli che
oggi sono gli stati indipendenti della Namibia, dello Zimbabwe e dello Zambia,
è diventata in vari momenti della storia un sindacato, un movimento di
contadini e un movimento degli abitanti delle baraccopoli.
Oggi le zone
in cui le relazioni di potere coloniali che ancora persistono assumono le loro
forme più estreme, come la Palestina e Haiti, non sono solo luoghi di
un’oppressione che passa ogni segno. Sono anche laboratori in cui vengono messe
alla prova nuove modalità di oppressione. I soldati brasiliani che hanno
partecipato all’occupazione di Haiti da parte dell’Onu e hanno preso parte alle
azioni per soffocare il movimento per la democrazia e la giustizia nelle
baraccopoli di Port-au-Prince sono tornati a casa per occupare le favelas di
Rio. Lo stato di Israele vende le tecnologie che ha testato in Palestina, e lo
stesso stato, con i consulenti a esso collegati, addestra funzionari di
polizia, soldati e società di sicurezza private di altri paesi. Le lezioni apprese
a Gaza verranno condivise con apparati di sicurezza da Johannesburg a Parigi e
a New York, modernizzando vecchie forme di dominazione.
Quando il
dipartimento di polizia in schiacciante maggioranza composto da bianchi di
Ferguson, nel Missouri, alcuni uomini del quale sono stati addestrati in
Israele, ha reagito alle proteste contro l’uccisione da parte di suoi agenti di
Michael Brown, un adolescente nero non armato, lo ha fatto utilizzando armi
utilizzate per la prima volta durante la guerra in Iraq. Le immagini che hanno
fatto il giro del mondo mostravano una modalità di repressione poliziesca che
può essere compresa solo come radicata nelle forme contemporanee di potere
imperiale e coloniale nel Medio Oriente, nonché nella lunga storia della
violenza statale contro i neri negli Stati Uniti. Non sorprende che da Gaza
abbiano cominciato a inviare vi twitter ai manifestati di Ferguson consigli su
come difendersi dalle granate stordenti, i gas lacrimogeni e tutto il resto. E
da Gaza sono stati anche inviati a Ferguson anche messaggi di sostegno.
Nel nostro
paese ormai non si può più nascondere che la polizia, equipaggiata in parte da
Israele, affronta una parte dei nostri concittadini come se fossero nemici
nell’ambito di una guerra coloniale. Nessuno che abbia visto le riprese del
massacro di Marikana, o di uno sgombro alla Marikana Land Occupation a Durban,
ne può dubitare. E come a Gaza, o a Ferguson, l’evidente carattere coloniale di
alcune forme del potere statale contemporaneo non consiste solo in una
subordinazione delle questioni sociali a una logica militare. Mentre gli stessi
cannoni ad acqua vengono utilizzati a Gaza, Port-au-Prince e Ferguson, o contro
le baraccopoli in Brasile e in Sudafrica, in tutto il mondo vengono replicate le
medesime operazioni ideologiche, anche se con una fraseologia diversa. La
persona che viene sempre trattata come se fosse armata, la cui vita non conta
nulla, la cui casa non è inviolabile, è un terrorista a Gaza, un gangster o un
criminale a Port-au-Prince, a Ferguson, a Rio o a Durban. Gli abitanti di Gaza
vengono identificati con Hamas, a Port-au-Prince con Aristide e Lavals. Qui da
noi in Sudafrica è la cosiddetta “terza forza”.
L’impunità
dello stato israeliano, così come di quello americano e come l’impunità con la
quale il nostro stato ricorre sempre più alle uccisioni e legittima l’uccisione
come strumento di controllo sociale, deve essere spezzata. La militarizzazione
delle questioni sociali deve essere spezzata ovunque. Se ciò non avverrà, quanto
è stato fatto ad Haiti tornerà come un boomerang in Brasile. Continuerà a
diventare parte dei meccanismi standard di repressione dei poveri delle aree
urbane da Bombay fino a Johannesburg. Quanto viene fatto in Palestina tornerà
come un boomerang nelle banlieue di Parigi, nei ghetti degli Stati Uniti e nei
luoghi del nostro paese in cui i lavoratori in sciopero si raccolgono o gli
sfrattati occupano terreni.